| | Statement
Josh George
Sono sempre stato attratto dall'paesaggio urbano, che possiede un differente tipo di bellezza. Il lavoro del tempo, causa del declino della muratura, mette alla prova gli edifici e i cieli cupi che li sovrastano. I miei soggetti sono occupate in atti statici della quotidianità. Bevono caffè, fumano e fissano la loro birra. Passeggiano nella città, sentendo il mondo urbano, ma non ascoltando abbastanza. Ognuno esiste semplicemente.
| | New York New York
Maurizio Bernardelli Curuz Stile
George è un giovane artista partito da Kansas City con Degas negli occhi e la contestazione nell'anima. Contestazione al modello di un'America di metallo e di vetro, in grado d'essere calvinista anche nella consumazione del peccato. Il suo è invece un continente controcorrente, che riesce uscire dall'ondata travolgente della produzione o del tempo libero produttivizzato per meditare, negli angoli dei bar dove la vita di carne umana, pelle, limonate e birre assume la pacatezza meditativa di una gora, circonfusa dalla luce indiretta, calda e composta, che allieta gli angoli dei grandi fiumi, sotto le frasche di alberi millenari.
Degas, quindi. Degas che significa assunzione di una linea umanistica perdente nell'ambito della vague francese di fine Ottocento. Degas come antipode di Monet, come luogo pittorico in cui l'ottimismo borghese si arena sulla sacralità della pelle umana e non esistono più mille aculei di luce mossi dal vento aperto, ma esclusive storie di paesaggi umani. Carne. Anima. Pensiero. Il Degas amato da George ( e preso come giovanile punto di riferimento accanto a Mary Cassat, George Bellows, Robert Henri, Hopper e gli artisti del gruppo Ash Can, che documenta la vita nei grandi agglomerati urbani) evita lo sguardo pieno della natura, e, pur in vibrazione di luce - con quelle farfalle luminescenti che si levano dai recessi oscuri degli interni – racconta un pensiero riposato. Ecco allora – evocati direttamente dalla pittura o con inserti di stoffe - drink luminosi, camicette di fresche ragazze accese come abat-jour, tende e muri, quadri nei quadri, chitarristi, sigarette oziose, palazzi decrepiti e dorati quanto edifici bizantini, conciliaboli di giovanotti, ragazzi, vecchi e camerierine che fanno sognare un Tolouse Lautrec povero emigrato in America, tazze e diffusi tepori, umidità lievi sui vetri.
| | La vita quotidiana nella metropoli:
le ultime opere di Josh George
Mauro Corradini
I documenti umani che appaiono al lettore attraverso le immagini di un giovane pittore statunitense, Josh George, nato nel Missouri nel 1973 e attivo a New York, sono prelievi da una città reale, quella di New York dove l'artista vive e costituiscono un repertorio di inquietudini e disordini, ma anche di quotidianità banale, in quel duplice volto che di solito presenta la metropoli moderna, così spoetizzata dal processo produttivo che l'ha trasformata in un formidabile apparato distributivo, povero di umanità.
E' la misura per cui le storie del pittore statunitense ad un tempo sono quotidiane e fantastiche, reali, al limite si diceva del banale, ma assunte in contesti (punti di vista e/o interpretazioni poetiche) che diviene difficile interpretare come pura e semplice normalità; le storie di George sono e diventano eventi, luoghi emblematici della vita in una metropoli, episodi attraverso cui il giovane artista si inserisce nella ricca tradizione nordamericana del racconto, quale si definisce con la letteratura tra le due guerre e ampi prolungamenti negli anni del secondo dopoguerra e artisticamente affonda le proprie radici nella più profonda tradizione americana, rinnovatasi a contatto con le aperture surreali e l'emotività dell'espressionismo europeo, negli anni eroici che seguono la grande depressione.
Il lettore intravede e coglie la verità dell'esistere negli sguardi assenti dei protagonisti delle storie di George; sono gli uomini o le donne soli, alle prese con l'ultima sigaretta (Meditando, 2006), desolatamente assenti di fronte all’ultima bibita, all’ultimo bicchiere di birra (Occasione persa, 2003), protagonisti in apparenza gioiosi nelle attività adolescenziali da college (Colpo finale, 2006), o nel rito collettivo del week-end, affogati in una dimensione di sogno e di angosce che superano la realtà e rimandano all’universo collettivo degli horror. La sua è una pittura che parte dalla raffigurazione diretta, diremmo fotografica, se non fosse per una deliberata assenza di particolari, che allontanano l'immagine dal mezzo ottico e meccanico. Le storie, il fatto, che il titolo, a volte assai lungo, sottolinea ed enfatizza, vengono costruite come se il pittore fosse installato su una “giraffa” per le riprese cinematografiche e potesse muoversi agevolmente e girare attorno e sopra al soggetto, fino a fermarsi in una posizione specifica, particolare, prediligendo di solito un punto di vista dall'alto. Utilizza tuttavia George una pittura corposa, spesso recupera la verità del collage cubista; per rinserrare il suo protagonista nel chiuso non solo metaforico di un mondo ristretto, utilizza una ridondanza e un'insistenza di pareti che fungono da sfondo, masse cromatiche consistenti, in debito nei confronti della grande stagione informale. La città non è un fondale per una scena, è essa stessa scena; la città è il luogo delle solitudini; il pittore ferma il suo sguardo per leggere le micro-storie. Se è pur vero che i grattacieli delle metropoli statunitensi costituiscono una straordinaria scultura, un insieme articolato, armonico o disomogeneo, ma senz'altro espressivo, l'occhio attento che George deposita sulle cose ferma la dimensione gioiosa sulla soglia inferiore della prima apparizione: e non possiamo che fermarci con lui, a riflettere su un gigantismo che muta i luoghi, ma non i cuori degli uomini.
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